Ci sono molti modi per uccidere: si uccide di lama o trapassando le carni con un colpo ben assestato. Si può cancellare l’identità di una persona versando acido sul suo viso fino a scioglierne, letteralmente, i lineamenti. Si può, poi, distruggere moralmente qualcuno privandolo della sua matrice più unica e profonda: la sua stessa individualità. L’assassinio morale non è fatto di violenza fisica ma di parole, troppe o troppo poche.
Ci sono silenzi che uccidono più delle assenze. Ogni morte, sia essa fisica o morale, è uguale all’altra, pur nelle sue molteplici varianti, quando se ne osserva l’effetto di atomizzazione dell’altro. Ci interfacciamo con qualcuno, un qualcuno che è perfetto nella sua essenza. Noi tutti nasciamo perfetti e non ci associamo ad altri per completare un corpo o una mente che già bastano a sé. Nasciamo e veniamo educati con il pregiudizio dell’incompletezza, dell’essere entità monche a caccia di una simmetria integrante. Troviamo o, meglio, ci illudiamo di incontrare l’arto mancante, la voce che dia un suono a tutto quello che risuona nel cuore e nella testa. Poi cresciamo e comprendiamo che non abbiamo bisogno di alcuna integrazione. L’arto che credevamo fantasma, finalmente, troviamo il coraggio di guardarlo e vediamo che non solo esiste ma che si estende come un’ala pronta ad assumere su di sé tutto l’attrito della vita. Chi vive con noi non riempie vuoti e non colma incapacità ma, finalmente, lo vediamo per quello che è: un compagno di viaggio. Un compagno che ci tiene per una mano, in quella dimensione aggiuntiva che è la coppia, riconoscendoci la libertà di vivere gli stimoli esterni e interni che rendono le due individualità di una relazione non due esseri in simbiosi ma due entità immerse in un magma sempre fluido di una vitalità che si riscopre di continuo. Quando vieni atomizzata, divisa in parti piccolissime fino a quella nebulizzazione che ti disperde in vari ruoli, di amica, madre, moglie, che non rappresentato il tuo Io, ma solo una parte e anche infinitesimale del tutto, inizi a chiederti chi sia quel tutto. Da questa ricerca che non è più quella di un’esternalità che ti colmi, ma la riscoperta di te stessa, parte la tua rinascita. Un lavoro che è contestualmente il più arduo e il più bello tra quelli che dovrai fronteggiare. Quello che ti farà dire “It’s my life”: tutto questo è la mia vita, quella vita di cui io sono l’unica padrona e di cui, sola, posso decidere gli approdi e determinare le risacche. I compagni di viaggio, siano essi i nostri partners o i nostri figli o, semplicemente, i nostri amici, saranno lì a guardare come, laboriosamente, scaviamo la nostra via su sentieri diversi da quelli che altri hanno battuto per noi. Saranno lì a ricordarci che a volte non comprenderanno le nostre scelte e a volte scuoteranno la testa di fronte all’implodere della stabilità ma, soprattutto, saranno lì, pronti a ridere delle nostre gioie e a sostenerci nelle nostre corse a fari spenti. La libertà è il patrimonio intrinseco più importante che qualcuno possa riconoscerci. Il mio tatuaggio, che porta una croce in ricordo di una cara amica morta per mano di un uomo, è il canto di amore più potente che mio figlio mi abbia donato. Sta lì, sul mio braccio, a indicarmi le conseguenze scellerate della violenza ma anche a dirmi che il mio faro sono io. Che il mio essere madre non mi condanna alla prigionia di un ruolo ma che è la tappa di un percorso di riconoscimento: mio figlio ha visto chi è Claudia.