LA STORIA DI LUCA (O’ ZULU’-99 POSSE) – Tesoro di Mamma

“Sono quello. Sono questo. Suono quello. Suono questo. Ho tatuato sulla pancia TDM – Terrone Di Merda e dietro la schiena cane sciolto. La pancia non è più quella di un tempo. Le montagne dell’Irpinia mi hanno rigenerato. Ho perso chili. Ho abbandonato la zavorra che non mi faceva spiccare il volo.

Ora sono un figurino, ma il tatuaggio è lì sempre. È  rimasto uguale.   In fin dei conti, resto sempre un terrone di merda. Hic sunt terrones. Lo dicevo in passato e lo dico ancora. Ora però quello che faccio ha una consapevolezza tutta nuova. Ho un figlio che cresce e rappresenta il mio giacimento di felicità. È venuto il momento di cantare anche degli attimi di gioia e trasmettere di padre in figlio quello che ho imparato e quello che ancora devo imparare. Resto pur sempre un figlio anche io, nonostante ho abbondantemente superato la soglia dei quarant’anni, mammà pensa che TDM sta per Tesoro Di Mamma. In fin dei conti ha ragione, siamo tutti tesori di mammà. Tesori di questa terra. Tesori di mamma terra.  Il marchio TDM, terrone di merda lo porto con orgoglio. Per me è come avere il sangue blu.           Sono consapevole e ho ben chiaro cosa significa non essere terrone: chi sfrutta il lavoro degli altri, chi semina il germe parassitario nei confronti dei suoi simili, chi non rifiuta i ritmi, i tempi e le regole imposti da qualcosa che è esterno a me, questo non è essere terrone.
Un uomo o una donna terrone oggi è un uomo o una donna che ha a cuore la terra e va a  ritmo. Al suo ritmo, non al nostro. Il mondo si evolve e con esso le parole. Anche la parola terrone fa parte di questo vortice evoluzionista. Un’idea dai confini policromi, variegati.  I terroni di oggi sono quelli che difendono la propria terra dai treni ad alta velocità, o quelli che si  incatenano a difesa degli ulivi pugliesi contro i poteri forti dei gasdotti.
E spesso, molto spesso,  i terroni sono quelli fuori contesto. Per questo, mi sento vicino ai soggetti borderline, a quelli seduti sempre sulla sedia del torto, quelli che si trovano sempre al posto sbagliato al momento sbagliato.
Fin da giovane vicino alle persone sbagliate con le loro storie sbagliate. Ed è da giovane che la miccia della mia vocazione rivoluzionaria si è accesa.  Si è accesa prima la musica e poi la passione politica. Ero un bimbo di otto- nove anni. A casa ritrovai una compilation doppia, di colore rosso. C’erano in copertina i Beatles affacciati ad un balcone. Fui rapito dalla loro canzone Nowhere man. Un testo in controtendenza rispetto ai canonici Beatles del tempo. La storia del nowhere man, l’uomo inesistente. Chi è un vero uomo inesistente? Quello che non prende mai posizione. Il vero male di questi tempi immersi in fascismi culturali. Resta lì, seduto sulla  sua terra inesistente, a fare i suoi progetti inesistenti per nessuno. Non ha un suo punto di vista. Non sa dove sta andando.
Quanti uomini inesistenti incrociamo ogni giorno? A me, a te, a noi … non ci resta che il tempo.  Le parole. Il suono. “

 

 

 

LA STORIA DI LUCA (O’ ZULU’-99 POSSE) – Tesoro di Mamma

Maria – Un posto nel mondo

 “Nessuno può conoscermi a fondo. Nemmeno io.
Troppo facile tirare le somme sulla base dei sorrisi, delle vittorie e dei giorni giusti che appaiono sullo strato superficiale della mia vita.
Cosa c’è dietro questa pellicola opaca che copre il mio vero io? Per ora non lo so con esattezza.
Per questo motivo,  sempre più  spesso, mi incammino nel mondo alla ricerca dei pezzi che mi mancano, di quelli che non posseggo.
Ho cominciato a sei anni quando mi trascinavo il mio zainetto rosa insieme a mamma e papà. Ora faccio rientrare tutto quello che mi serve nel bagaglio a mano delle compagnie low cost.
Dieci chili di trolley farciti più di un french sandwich per volare in un posto nel mondo. Uno qualunque.
Desidero partire: non verso le Indie impossibili o verso le grandi isole a Sud di tutto, ma verso un luogo qualsiasi, villaggio o eremo, che possegga la virtù di non essere questo luogo.
Non voglio più vedere questi volti, queste abitudini e questi giorni.
La mia sete di conoscenza mi ha portato ad approfondire gli studi nelle lingue che mi consentono di interfacciarmi senza problemi in ogni luogo.
Studiando russo ed inglese ho le chiavi per poter accedere ai mondi della gente, comprendere i loro usi, costumi, le loro vite, le loro paure.
E conoscendo loro conosco un po’ più me stessa. Guardo il mio polso. Ho l’immensità del mondo racchiusa in poco più di qualche centimetro. Sono consapevole di essere a mio agio in ogni dove, e di sapere che tra i miei affetti  c’è qualcuno pronto ad accogliermi in ogni eventuale mio momento di difficoltà o esitazione”.

Maria – Un posto nel mondo

LA STORIA DEI TATUAGGI PUBBLICITARI

Avete mai notato sottopelle di qualcuno un marchio aziendale?

L’ultima tendenza in fatto di marketing sembra essere proprio quella di utilizzare i tatuaggi come “messaggi pubblicitari
Emblematico in questo senso fu nel 2014  il caso della Reebok.

L’azienda ha indetto un concorso per assegnare al miglior tatuaggio raffigurante il logo dell’azienda 6000 dollari.

Lo slogan dell’iniziativa era “Pain is temporary, Reebok is forever”.
Le storie sottopelle di queste persone raccontano il come e il perchè della decisione di diventare sponsor viventi  tatuandosi un logo aziendale, un sito web,  un motto, uno slogan aziendale.

Joe Tamargo ha un corpo ricoperto di tatuaggi che rappresentano loghi e indirizzi di diversi siti web.
Anche Pat Vaillancourt ha deciso di  prendere questa strada, tatuandosi centinaia di url di siti web sul corpo. Per aggiungere il proprio indirizzo basta una donazione di soli 35 dollari.

Kimberly Smith nel 2005 si è fatta imprimere in fronte il nome di un casinò online per poter pagare la scuola dei figli.  È stata lei a lanciare la moda dei tatuaggi pubblicitari.

 

Rosaria – Campanello d’allarme

“Un’uggiosa giornata di agosto mi ha ricordato che può piovere anche d’estate.
Il 29 agosto per la precisione. Una di quelle giornate in cui l’estate comincia a prendere le sembianze dell’autunno senza saperlo.
Qualche giorno prima avevo avuto un campanello d’allarme.
Se ci penso, l’espressione campanello d’allarme è un ossimoro.
I campanelli anticipano l’arrivo di cose belle, di persone gradite che bussano e si accomodano in casa.
Il loro dindondare rimanda ad un’infanzia non tanto lontana di quando le persone ancora suonavano alla porta per domandarti semplicemente “come va?”.
Se accostiamo la parola campanello ad allarme, cambia tutto il senso.
L’allarme mi mette in tensione. Mi ricorda che qualcosa non sta andando per il verso giusto, che c’è un’intrusione, che occorre ritornare alla normalità.
I campanelli d’allarme pungolano l’anima come chiodi arrugginiti, facendo diventare uno scolapasta qualunque animo sereno.
Quel 29 agosto di qualche anno fa mi hanno comunicato che ero stata colpita da un tumore. Colpita. Appunto.
All’improvviso e senza un motivo. Come un sasso lasciato cadere da un ponte che per qualche assurda ragione mi ha ferito proprio mentre ero lì io che passeggiavo beata.
Il 29 agosto ho scoperto di essermi ammalata allo specchio. Mi osservavo nuda. Sola. Ho visto d’un tratto la mia femminilità mutata. Mi ritornarono alla mente le nozioni di medicina che mio marito ripeteva a voce alta durante il periodo universitario. A distanza di anni cominciavano a rimbombare quelle nozioni fredde di medicina che sentivo così lontane. Pagine di libri con nomi scientifici e tecniche di autopalpazione.
Abbiamo l’abitudine di pensare sempre che queste cose possano accadere agli altri.  È una sorta di autodifesa personale. Aiuta a vivere.
Il male quando è lontano non fa paura. Per qualche motivo senza una ragione, la sorte ha deciso di giocare con la mia vita e di consegnarmi la ricevuta di un biglietto sfortunato. Il ticket che in poco più di ventiquattro ore mi ha portato dalla mia variopinta casa, ad una  sterile  e fredda sala operatoria
Mi sono sentita svuotata del mio essere donna.  Sono stata colpita nella mia femminilità.
Senza più capelli e con una malatja che si che si tentava di sconfiggere all’interno del mio corpo.
Un polpo che attaccato con le ventose alle mie forme ha tentato di stritolarmi in una morsa asfissiante. È stato un brutto colpo.
La prova più difficile è convivere con la paura della morte.
Paura non della mia morte, ma della reazione ad una mia mancanza definitiva nella vita dei miei cari.
Avevo paura della morte nei miei amori.
Il periodo più buio è passato.
Ogni volta che effettuo un controllo ed attendo l’esito dell’ecografia sul lettino stropicciato del mio medico, vedo la paura che mi spia dal retro della tendina dello studio.
È lì. Sempre. Ogni volta. La paura c’è sempre.
Ma il coraggio è più forte. ”

Rosaria – Campanello d’allarme

Stefania – Marmo

“Se mi confronto con la maestosità dell’arte sono solo una manciata di fango e bile.
Come è possibile tirare fuori da un blocco di marmo un’opera eterna come quella del David di Michelangelo?
Come si può scolpire il dramma del Cristo morto come ha fatto Nicolò Dell’Arca?
Un blocco di pietra che parla ed emoziona, riesce a farmi sentire la furia e l’angoscia del dolore.
Il primo approccio con l’arte è avvenuto per le strade della mia città.
Rulli immersi in colorati secchi di vernice e pennelli: facevo graffiti più o meno legali senza spray.
Un’arte delicata spacciata a caso nei cantieri abbandonati e nelle strade grigie, alla ricerca di vitalità.
Nel corso degli anni poi mi sono innamorata alla scultura.
Invano lo scultore si sforza di porsi da un punto di vista unico, girando attorno alla figura, la osserva,
la scruta, la scolpisce prima con gli occhi e poi con lo scalpello, lo spettatore invece può scegliere cento punti di vista differenti,
meno quello buono, e accade spesso, cosa umiliante per l’artista, che un movimento di luce,
un riflesso di una lampada rivelino una bellezza diversa da quella a cui egli aveva pensato.
Oggi mi osservo da diverse angolazioni, con luci e chiaroscuri sempre nuovi,
consapevole di poter essere un’artigiana dell’arte”.

 

Stefania – Marmo

Rosa – Mal d’Africa

“Arriva all’improvviso.
Mentre sono impegnata a fare tutt’altro, mentre scolo la pasta,
mentre stendo il bucato, alla fermata del bus o mentre imbusto la spesa al supermercato.
Accade che la mente se ne va, vola via, come un gabbiano in una limpida giornata di primavera e si posa lì su quel viaggio che mi ha portato in Africa.
Sono investita all’improvviso da quei colori,
odori e sensazioni che si posizionano senza chiedere il permesso davanti agli occhi.
Vivo il mal d’Africa, una struggente saudade che mi porta con il cuore tra quei bambini che vivono in una terra martoriata dal Dio denaro.
Quegli occhioni nero pece che rivedo vagando tra i vicoli della mia città,
mi ricordano che ci sono momenti che possono cambiarti la vita, o quantomeno la sua percezione: un viaggio in Africa.
Seguendo gli insegnamenti di donne che hanno cambiato la storia affronto i giorni con totale interesse verso le persone,
infondendo massima attenzione verso il mondo che mi circonda.
Vivo così: raccolgo le esperienze dense dei miei viaggi, osservo la vita che mi assorbe
per sentirmi una persona migliore, credendo in fin dei conti che un altro mondo è possibile: quello dei bambini.”

Rosa – Mal d’Africa

LA STORIA DEI TATUAGGI DISPARI

Ora che hai due tatuaggi devi fare per forza il terzo!”, “Quattro? Ora tocca farti il quinto?”.
Quante volte abbiamo ascoltato queste parole? Cosa si cela dietro alla regola del dispari nel mondo dei tattoo?
Non si tratta di una consuetudine messa in giro da qualche tatuatore per battere cassa, ma la tradizione dei tatuaggi dispari affonda le proprie radici all’inizio dell’ 800 durante il periodo delle navigazioni e del mondo marinaresco.
Essendo una leggenda, ciò che seguirà non deve essere presa come verità assoluta.
Leggenda vuole che il marinaio che partiva per la prima volta, si tatuasse per buon auspicio nel porto di partenza.
Una seconda volta nel porto di destinazione ed un terzo tatuaggio infine veniva fatto per celebrare il ritorno a casa, dalla propria famiglia.
Con il terzo si chiudeva quindi un percorso, un viaggio.
Avere un numero pari di tatuaggi, significava per il marinaio essere lontano da casa, dai propri affetti.
Oggi non ci sono più le traversate oceaniche su velieri o grandi navi, ma la tradizione leggendaria che si nasconde dietro al numero dispari dei tatto continua a vivere tra gli addetti ai lavori, o meglio continua a navigare. [Pippo Zarrella]

Helena – Unica

 “Stare al mondo è una cosa seria.
Penso spesso alle cose che mi hanno reso più forte e sicura.
Penso alle cose che mi hanno fatto piangere di preoccupazione.
Mi infastidisce non poter controllare le cose e lasciarmi strattonare dagli eventi.
Penso spesso a quando ho dovuto trasmettere sicurezza alle persone che mi stavano accanto nonostante non ne fossi capace.
Io che dell’insicurezza ne ho fatto uno stile di vita, ho dovuto scorciarmi le maniche ed immergere le mani nei terreni melmosi della paura grigia.
Ho scoperchiato il vaso della mia forza d’animo pensando a tutti quei momenti in cui una battuta, un abbraccio o una carezza, mi ha fatto sentire una persona capace: capace di stare accanto alle persone.
Ed è difficile stare accanto alle persone.  Camminare fianco a fianco è una cosa da innamorati.
Né un passo avanti né uno indietro.
Ci vuole equilibrio e tempo.
Lo stesso tempo che mi ha reso una persona consapevole.
Il tempo che mi ha reso una persona migliore.
Ed è proprio il tempo che ho perduto per la mia rosa che ha reso la mia rosa così importante.  Unica.”

Helena – Unica

ILARIA – I will survive


“È un’estate torrida a Cittadella del Capo.  È sabato sera.
Ad una diciasettenne di sabato sera  in vacanza in Calabria,  poco importa del tempo. Solo gli adulti parlano di meteo, del cambio delle temperature, dell’umidità, delle zanzare.
Vado a ballare a Sangineto poco lontano da casa mia. Con le amiche si balla sulle note di I will survive di Gloria Gaynour. Si esce dal locale con le gambe che continuano a ballare da sole.
Addento un cornetto alla crema neanche poi così buono con la voracità di un alligatore. Ritorno a casa. Mia madre mi aspetta lì  sull ’uscio di casa pronta a rifilarmi un paliatone educativo.  Ogni volta che riascolto I will survive, sorrido,  ricordandomi lo sguardo preoccupato di mia madre mentre mi attendeva con ansia sulla porta di casa.   A distanza di anni ho inciso sul mio corpo tatuaggi variopinti dopo aver conosciuto il buio della non voglia di vivere.  Sono stata appesantita da una depressione che non andava via. Ora,  ho colorato la mia vita dopo aver conosciuto il buio. Ogni volta che qualche pensiero pesante riaffiora nella mente, ricordo mia madre che mi dava una scossa preoccupata mentre continuavo a canticchiare le note di Gloria Gaynour. “Pensavi che sarei crollata? Pensavi che mi sarei buttata giù e sarei morta? /oh no, non io! Sopravviverò/ oh finché saprò come si ama so che resterò viva/ ho tutta la mia vita da vivere, ho tutto il mio amore da dare /e sopravviverò, sopravviverò…Hey, He”.

ILARIA – I will survive

Vincent – Con Safos

 “Sulla carta d’identità, nella sezione “professione” ho ancora scritto studente. Studio ancora. Studio sempre per migliorare la mia posizione.
Lo studio, l’approfondimento, la curiosità, sono le uniche armi che mi sono rimaste e che ancora non sono state sequestrate da un mondo armato fino ai denti di scalatori sociali e arrivisti incravattati.
Quando tre anni fa decisi di abbracciare il tortuoso cammino della professione artistica, sapevo a cosa andavo incontro. Destinato ad una vita di sacrifici ed incertezze. Una vita precaria. Instabile.
Ma chi ventenne oggi può dire di avere una posizione salda? Cosa c’è di stabile in un contratto bimestrale per lavorare in un fast food di provincia e servire pepsi e hamburger con uno stipendio di trecento euro al mese?
Quindi fanculo: “mamma, papà faccio il tatuatore!”.
Tre anni fa mi iscrissi al corso per imparare l’arte del tatuaggio e le tecniche rudimentali di questo bellissimo lavoro artigianale. Cominciai ad essere la cavia di me stesso. Mi tatuavo sul corpo per fare esperienza e prendere il tratto.
Tra i primi tatuaggi, mi incisi sul ginocchio la sigla C/S appartenente alla cultura chicana. È un codice di vita e di condotta che alla lettera si traduce “con rispetto”. In un’intervista, l’artista David Compton Orpeza ha affermato che con safos è uno stile di vita. Sta a significare
“sapere cos’è il rispetto, riconoscerlo, sapere che persona si è e cosa hanno fatto alla mia gente”.

Vincent –  Con Safos