L’amore cos’è?
Me lo sono chiesta per lungo tempo.
Nel corso degli anni mi sono data sempre una risposta in negativo.
L’amore non è.
Ogni giorno capivo sempre in più, aggiungendo qualcosa alla lista di ciò che per me non era amore.
Non era amore tante cose.
Da qualche tempo invece ho capito cos’è l’amore.
L’amore è concedersi. Scambiarsi. Ricollocarsi nella vita dell’altro senza sentire il peso del cambiamento.
L’amore è donare un pezzo di sé.
Regalarlo all’altro per riceverne il doppio.
Una moltiplicazione del proprio io che ha depennato dal mio vocabolario la parola “io” e l’ha sostituita con la parola “noi”.
Una strana addizione dove Io + Te dà come risultato un Noi impegnativo, che mi fa affrontare le cose in modo diverso.
Io so che sei al mio fianco e mi sosterrai quando ne avrò bisogno senza interferire sul mio percorso.
Mi sono concessa alla tua arte. Sono diventata la tua tela bianca sulla quale imprimere parte di te.
Mi sono sentita protagonista di un’opera più grande della semplice rappresentazione artistica.
Quello che tatuavi era solo un accenno dell’opera intera: noi. Io e te. Un amore sottopelle che crea legami duraturi. Eterni.
Ed io ho capito cos’è l’amore.
Concedendo a te una parte di me, il mio tattoo è una figura retorica che rappresenta una parte per il tutto.
Il mio amore per te è una sineddoche.
storie
ogni tatuaggio è una storia sottopelle
Rosaria – Luna Park
Salgo quanto più in alto è possibile e poi mi lancio nel vuoto. Salgo fino a su e guardo tutti dall’alto.
Li vedo al sicuro nelle loro vite mentre si gustano lo zucchero filato o la mela candita, e poi mi lancio a tutta velocità tra le nuvole, con i capelli sciolti e il vento che mi accarezza il viso.
Nelle montagne russe si può leggere la parola inglese giddy, vertiginoso.
Mi nutro di queste sensazioni, perché a me piace stare così, restare ferma quasi al limite di una vertigine.
È la paura che muove ogni azione. Nient’altro.
È la paura che spinge ogni cosa.
Scesa dalle montagne russe, salgo sulla ruota panoramica mentre il giostraio invita i bambini a salire.
I giorni trascorrono in questo modo strano.
A volte sei in alto, ti senti invincibile a due passi dal cielo, altre volte sei giù senza riuscire a godere della bellezza del panorama.
La cosa che mi consola è che su ogni avvenimento o persona nel quale mi imbatto, ne ho una visione completa.
Vedo le cose in prospettive diverse in modo da apprezzarne tutte le sfumature, dall’alto così come dal basso.
Vivo in un luna-park. Tra luci al neon ed umani giostrai.
Morena – Wonderland
“Per quanto tempo è per sempre? A volte, solo un secondo. A volte solo un tatuaggio.
Luci lampeggianti ed io ho preso una strada sbagliata e sono caduta nella tana del coniglio.
Qui nulla è come sembra. La chiamano Wonderland.
Cerco una ragione nella Regina Cattiva e non la trovo.
Mi lascio avvolgere dai fumi del Brucaliffo tentando di rispondere alle sue domande esistenziali:
Chi essere io? Lo dovrei sapere chi sono, eppure a volte ho qualche dubbio.
Mi basterebbe rincorrere un Bianconiglio, una meta da conquistare, un obiettivo da seguire. A volte invece mi sembra di restare seduta al cospetto del Cappellaio Matto e della Lepre Marzolina.
Vorrei sedermi e bere il tè, ma appena prendo la tazzina qualcuno mi cambia di posto.
L’unica certezza nel mondo delle meraviglie è la mia sorella. Un legame Aδιάλυτος, indissolubile che abbiamo formalizzato ufficialmente durante la nostra vacanza in Grecia.
Lei è la mia unica certezza, l’unica persona con la quale riesco ad affrontare questo pazzo mondo di Wonderland. Un mondo che lascia il segno. Come cicatrici su pelle morbida. Come esperienze di vita da addentare insieme senza troppe domande.
Ti guardo e contemplo l’odore del mare, la sabbia sotto le dita, l’aria e il vento, cercando una risposta che nessuno finora è riuscito a dare: perché i tramonti son pupazzi da levare?”
Alessandro – Liste d’attesa
Nessuno mi ha mai avvertito. Nessun medico mi ha mai messo in guardia. Il corpo mi lanciava le sue richieste d’aiuto. Ero stanco ed affaticato. Io però non le ascoltavo. Pensavo fosse stress miscelato a disturbi gastrointestinali. Non avevo capito niente. Il mio corpo parlava la sua lingua e nessun medico riusciva a tradurre. Così un giorno qualcuno dalle viscere ha lanciato l’ultimo urlo d’aiuto. Mi sono accasciato al suolo. All’improvviso. Qualche mese prima mi ero tatuato sulle braccia le due parole: heart e head. Testa e cuore. Quello che è necessario per andare avanti nella vita. Un segno premonitore. L’inconscio che batteva i piedi per farsi sentire. Cuore e mente. Quel cuore però aveva qualche problema. Non funzionava più a dovere, era un motore invecchiato in un corpo di un’auto appena uscita dalla concessionaria. Andava sostituto. Un pezzo di ricambio che non è possibile aggiustare con un intervento manutentivo. Entrai il lista d’attesa. Qualcuno doveva morire affinché io potessi vivere. Che storia la vita. Un tizio qualunque in Italia colpito da chissà quale disgrazia si stava donando a me, perfetto sconosciuto.
In questa fase dove il mio cuore malaticcio aveva bisogno d’aiuto ho trovato una donna con una forza d’animo incredibile che mi accudiva e mi ha donato il suo di cuore restando in vita al mio fianco ogni attimo. Una donna capace di far smuovere grattacieli e far volare elicotteri. Proprio quelli che all’improvviso sfrecciavano per i cieli per ritirare in chissà quale parte d’Italia un organo da donare. C’era una priorità. Nella lista d’attesa ero prima del cardiopatico cinquantenne, ma dopo al ragazzo di diciott’anni. Guardavo dalle vetrate trasparenti dell’ospedale gli elicotteri volare in cielo che andavano a ritirare gli organi donati per poi impiantarli nel minor tempo possibile. Ogni volta che un elicottero accendeva i motori pensavo che era il mio viaggio. Quello giusto. Quello per me. Quello che andava a prelevare il cuore da un ignoto giovane benefattore. Una notte d’Agosto è stato il giorno giusto. Una notte d’Agosto è stato il mio giorno. L’attesa era terminata. Il mio cuore poteva essere sostituto.
Oggi vivo con tre cuori perfettamente sincronizzati. Il mio nuovo, quello vecchio e quello della donna che mi affianca tutt’ora, donando il suo cuore ogni giorno senza perdere la vita. Quanta eternità c’è in un battito.
Vincenzo (Speaker Cenzou) – La Cosa più bellissima del mondo
“Il mio primo tattoo l’ho fatto a trentanove anni. In poco meno di un anno ne ho fatti già tre. È l’inizio di un percorso che mi porterà verso il tatuaggio numero sette. Ognuno è una polaroid della mia vita incisa su pelle. È una strada fatta di aghi e colori che ha un inizio ed una fine, un beat sparato a mostro che comincia e poi finisce. Come tutte le cose. Quelle belle e quelle brutte.
Sul bicipite c’è il pezzo della mia vita. La mia terra, il mio quartiere, mio padre ed il suo lavoro che mi ha fatto diventare quello che sono.
Lo ringrazio per le sudate quotidiane e le sue giornate intere sul taxi. Sgattaiolava per le vie di Napoli trasportando turisti, professionisti e gente comune. Conosceva Napoli più della sue tasche. Con un orecchio al sedile posteriore, raccoglieva le storie fugaci mentre con sguardo vigile sulla strada, accompagnava i suoi clienti alle mete indicate.
Questo è quello che da lui ho ereditato: la consapevolezza del duro lavoro per raggiungere gli obiettivi prefissati e i sensi vigili sulla strada per ascoltare ed osservare il mondo liquido nel quale sono immerso. Grazie a lui, ho capito che sia in taxi che nella vita occorre muoversi, fare i passi avanti, macinare chilometri, perché tanto il tassametro continua a correre.
Ora camminamm assiem pure si nun ce sta cchiù. Fianco a fianco.
Tra l’immagine del taxi e quella di mio padre si eleva la statua di San Gaetano, la sua piazza e la sua gente. Qui il bambino cattivo che è in me ha mosso i primi passi nel mondo del rap. Con LA FAMIGLIA, i 99 POSSE e i SANGUE MOSTRO poi. Un bambino cattivo che a breve tornerà in quelle strade a far sentire la sua voce per l’anniversario dei suoi venti anni.
Per quanto riguarda invece il mio avambraccio, ho inciso una trama biomeccanica. L’ho tatuata prima di un intervento importante allo stomaco. Volevo evocare un aiuto. Avevo bisogno di protezione. Una protezione interstellare. È un omaggio alla saga Star Wars Episodio V- L’ Impero colpisce ancora dove Luke Skywalker perde la mano durante uno scontro violento e poi questa gli ricresce.
Ora senza perdere l’entusiasmo che avevo quando ho cominciato ad intrecciare parole all’età di dodici anni, mi sento vivo ogni volta che impugno un microfono.
Il piccolo Cenzou spicca il volo e plana tra le rime incastrate come alici sotto sale.
Ed ogni volta è sempre la stessa storia. Quando salgo sul palco e sento gli applausi della gente, i ragazzi che conoscono a bomba ogni parola del testo e le tavole del palco che scricchiolano, mi rendo conto che questa è la Cosa più bellissima del mondo.”
LA STORIA DI LUCA (O’ ZULU’-99 POSSE) – Tesoro di Mamma
“Sono quello. Sono questo. Suono quello. Suono questo. Ho tatuato sulla pancia TDM – Terrone Di Merda e dietro la schiena cane sciolto. La pancia non è più quella di un tempo. Le montagne dell’Irpinia mi hanno rigenerato. Ho perso chili. Ho abbandonato la zavorra che non mi faceva spiccare il volo.
Ora sono un figurino, ma il tatuaggio è lì sempre. È rimasto uguale. In fin dei conti, resto sempre un terrone di merda. Hic sunt terrones. Lo dicevo in passato e lo dico ancora. Ora però quello che faccio ha una consapevolezza tutta nuova. Ho un figlio che cresce e rappresenta il mio giacimento di felicità. È venuto il momento di cantare anche degli attimi di gioia e trasmettere di padre in figlio quello che ho imparato e quello che ancora devo imparare. Resto pur sempre un figlio anche io, nonostante ho abbondantemente superato la soglia dei quarant’anni, mammà pensa che TDM sta per Tesoro Di Mamma. In fin dei conti ha ragione, siamo tutti tesori di mammà. Tesori di questa terra. Tesori di mamma terra. Il marchio TDM, terrone di merda lo porto con orgoglio. Per me è come avere il sangue blu. Sono consapevole e ho ben chiaro cosa significa non essere terrone: chi sfrutta il lavoro degli altri, chi semina il germe parassitario nei confronti dei suoi simili, chi non rifiuta i ritmi, i tempi e le regole imposti da qualcosa che è esterno a me, questo non è essere terrone.
Un uomo o una donna terrone oggi è un uomo o una donna che ha a cuore la terra e va a ritmo. Al suo ritmo, non al nostro. Il mondo si evolve e con esso le parole. Anche la parola terrone fa parte di questo vortice evoluzionista. Un’idea dai confini policromi, variegati. I terroni di oggi sono quelli che difendono la propria terra dai treni ad alta velocità, o quelli che si incatenano a difesa degli ulivi pugliesi contro i poteri forti dei gasdotti.
E spesso, molto spesso, i terroni sono quelli fuori contesto. Per questo, mi sento vicino ai soggetti borderline, a quelli seduti sempre sulla sedia del torto, quelli che si trovano sempre al posto sbagliato al momento sbagliato.
Fin da giovane vicino alle persone sbagliate con le loro storie sbagliate. Ed è da giovane che la miccia della mia vocazione rivoluzionaria si è accesa. Si è accesa prima la musica e poi la passione politica. Ero un bimbo di otto- nove anni. A casa ritrovai una compilation doppia, di colore rosso. C’erano in copertina i Beatles affacciati ad un balcone. Fui rapito dalla loro canzone Nowhere man. Un testo in controtendenza rispetto ai canonici Beatles del tempo. La storia del nowhere man, l’uomo inesistente. Chi è un vero uomo inesistente? Quello che non prende mai posizione. Il vero male di questi tempi immersi in fascismi culturali. Resta lì, seduto sulla sua terra inesistente, a fare i suoi progetti inesistenti per nessuno. Non ha un suo punto di vista. Non sa dove sta andando.
Quanti uomini inesistenti incrociamo ogni giorno? A me, a te, a noi … non ci resta che il tempo. Le parole. Il suono. “
Maria – Un posto nel mondo
“Nessuno può conoscermi a fondo. Nemmeno io.
Troppo facile tirare le somme sulla base dei sorrisi, delle vittorie e dei giorni giusti che appaiono sullo strato superficiale della mia vita.
Cosa c’è dietro questa pellicola opaca che copre il mio vero io? Per ora non lo so con esattezza.
Per questo motivo, sempre più spesso, mi incammino nel mondo alla ricerca dei pezzi che mi mancano, di quelli che non posseggo.
Ho cominciato a sei anni quando mi trascinavo il mio zainetto rosa insieme a mamma e papà. Ora faccio rientrare tutto quello che mi serve nel bagaglio a mano delle compagnie low cost.
Dieci chili di trolley farciti più di un french sandwich per volare in un posto nel mondo. Uno qualunque.
Desidero partire: non verso le Indie impossibili o verso le grandi isole a Sud di tutto, ma verso un luogo qualsiasi, villaggio o eremo, che possegga la virtù di non essere questo luogo.
Non voglio più vedere questi volti, queste abitudini e questi giorni.
La mia sete di conoscenza mi ha portato ad approfondire gli studi nelle lingue che mi consentono di interfacciarmi senza problemi in ogni luogo.
Studiando russo ed inglese ho le chiavi per poter accedere ai mondi della gente, comprendere i loro usi, costumi, le loro vite, le loro paure.
E conoscendo loro conosco un po’ più me stessa. Guardo il mio polso. Ho l’immensità del mondo racchiusa in poco più di qualche centimetro. Sono consapevole di essere a mio agio in ogni dove, e di sapere che tra i miei affetti c’è qualcuno pronto ad accogliermi in ogni eventuale mio momento di difficoltà o esitazione”.
Rosaria – Campanello d’allarme
“Un’uggiosa giornata di agosto mi ha ricordato che può piovere anche d’estate.
Il 29 agosto per la precisione. Una di quelle giornate in cui l’estate comincia a prendere le sembianze dell’autunno senza saperlo.
Qualche giorno prima avevo avuto un campanello d’allarme.
Se ci penso, l’espressione campanello d’allarme è un ossimoro.
I campanelli anticipano l’arrivo di cose belle, di persone gradite che bussano e si accomodano in casa.
Il loro dindondare rimanda ad un’infanzia non tanto lontana di quando le persone ancora suonavano alla porta per domandarti semplicemente “come va?”.
Se accostiamo la parola campanello ad allarme, cambia tutto il senso.
L’allarme mi mette in tensione. Mi ricorda che qualcosa non sta andando per il verso giusto, che c’è un’intrusione, che occorre ritornare alla normalità.
I campanelli d’allarme pungolano l’anima come chiodi arrugginiti, facendo diventare uno scolapasta qualunque animo sereno.
Quel 29 agosto di qualche anno fa mi hanno comunicato che ero stata colpita da un tumore. Colpita. Appunto.
All’improvviso e senza un motivo. Come un sasso lasciato cadere da un ponte che per qualche assurda ragione mi ha ferito proprio mentre ero lì io che passeggiavo beata.
Il 29 agosto ho scoperto di essermi ammalata allo specchio. Mi osservavo nuda. Sola. Ho visto d’un tratto la mia femminilità mutata. Mi ritornarono alla mente le nozioni di medicina che mio marito ripeteva a voce alta durante il periodo universitario. A distanza di anni cominciavano a rimbombare quelle nozioni fredde di medicina che sentivo così lontane. Pagine di libri con nomi scientifici e tecniche di autopalpazione.
Abbiamo l’abitudine di pensare sempre che queste cose possano accadere agli altri. È una sorta di autodifesa personale. Aiuta a vivere.
Il male quando è lontano non fa paura. Per qualche motivo senza una ragione, la sorte ha deciso di giocare con la mia vita e di consegnarmi la ricevuta di un biglietto sfortunato. Il ticket che in poco più di ventiquattro ore mi ha portato dalla mia variopinta casa, ad una sterile e fredda sala operatoria
Mi sono sentita svuotata del mio essere donna. Sono stata colpita nella mia femminilità.
Senza più capelli e con una malatja che si che si tentava di sconfiggere all’interno del mio corpo.
Un polpo che attaccato con le ventose alle mie forme ha tentato di stritolarmi in una morsa asfissiante. È stato un brutto colpo.
La prova più difficile è convivere con la paura della morte.
Paura non della mia morte, ma della reazione ad una mia mancanza definitiva nella vita dei miei cari.
Avevo paura della morte nei miei amori.
Il periodo più buio è passato.
Ogni volta che effettuo un controllo ed attendo l’esito dell’ecografia sul lettino stropicciato del mio medico, vedo la paura che mi spia dal retro della tendina dello studio.
È lì. Sempre. Ogni volta. La paura c’è sempre.
Ma il coraggio è più forte. ”
Stefania – Marmo
“Se mi confronto con la maestosità dell’arte sono solo una manciata di fango e bile.
Come è possibile tirare fuori da un blocco di marmo un’opera eterna come quella del David di Michelangelo?
Come si può scolpire il dramma del Cristo morto come ha fatto Nicolò Dell’Arca?
Un blocco di pietra che parla ed emoziona, riesce a farmi sentire la furia e l’angoscia del dolore.
Il primo approccio con l’arte è avvenuto per le strade della mia città.
Rulli immersi in colorati secchi di vernice e pennelli: facevo graffiti più o meno legali senza spray.
Un’arte delicata spacciata a caso nei cantieri abbandonati e nelle strade grigie, alla ricerca di vitalità.
Nel corso degli anni poi mi sono innamorata alla scultura.
Invano lo scultore si sforza di porsi da un punto di vista unico, girando attorno alla figura, la osserva,
la scruta, la scolpisce prima con gli occhi e poi con lo scalpello, lo spettatore invece può scegliere cento punti di vista differenti,
meno quello buono, e accade spesso, cosa umiliante per l’artista, che un movimento di luce,
un riflesso di una lampada rivelino una bellezza diversa da quella a cui egli aveva pensato.
Oggi mi osservo da diverse angolazioni, con luci e chiaroscuri sempre nuovi,
consapevole di poter essere un’artigiana dell’arte”.
Rosa – Mal d’Africa
“Arriva all’improvviso.
Mentre sono impegnata a fare tutt’altro, mentre scolo la pasta,
mentre stendo il bucato, alla fermata del bus o mentre imbusto la spesa al supermercato.
Accade che la mente se ne va, vola via, come un gabbiano in una limpida giornata di primavera e si posa lì su quel viaggio che mi ha portato in Africa.
Sono investita all’improvviso da quei colori,
odori e sensazioni che si posizionano senza chiedere il permesso davanti agli occhi.
Vivo il mal d’Africa, una struggente saudade che mi porta con il cuore tra quei bambini che vivono in una terra martoriata dal Dio denaro.
Quegli occhioni nero pece che rivedo vagando tra i vicoli della mia città,
mi ricordano che ci sono momenti che possono cambiarti la vita, o quantomeno la sua percezione: un viaggio in Africa.
Seguendo gli insegnamenti di donne che hanno cambiato la storia affronto i giorni con totale interesse verso le persone,
infondendo massima attenzione verso il mondo che mi circonda.
Vivo così: raccolgo le esperienze dense dei miei viaggi, osservo la vita che mi assorbe
per sentirmi una persona migliore, credendo in fin dei conti che un altro mondo è possibile: quello dei bambini.”