Giacomo – A Tua Difesa

“Le mie radici sono conficcate in questa terra, tra queste genti di mare con il sangue misto.
Questa è la mia Città: Taranto. Il luogo dove sono nato e quello dove sono cresciuto che ora raggiungo ogni volta che posso.
Il calcio ha reso ancora più forte il legame con la mia terra. Ogni tifoso è un arciere che combatte a difesa della sua città,
proprio come recita l’incisione in greco sulla mia pelle (nonostante l’errore grammaticale causato dal mio professore delle superiori).
Un accento sbagliato, ma il contenuto non cambia.

Ogni cittadino di Taranto deve difendere la sua terra al di là dei novanta minuti domenicali trascorsi allo Stadio Iacovone.
Noi tarantini, da colonia della Magna Grecia e Terra dei Delfini ora siamo diventati colonia americana insieme alla Marina Militare e Terra di Tumori grazie al plesso industriale ILVA.

A difesa della Città. Resto qui. Restiamo qui. Fermi. Ogni giorno. Senza fare mai un passo indietro”.

Giacomo – A Tua Difesa

Giovanni – Suona Ancora

“All’età di otto anni, strimpellavo già qualche nota con la mia chitarra della Bontempi.
Dopo un po’ quel giocattolo non mi bastava più.
Volevo uno strumento musicale vero.
I miei genitori mi comprarono una chitarra in legno. §
A volte,da piccolo, la posizionavo in verticale e la utilizzavo per controllare la mia altezza.
All’inizio, la chitarra, era più alta di me.
Mi chiedevo come era possibile che un pezzo di legno e qualche corda potesse emettere quelle melodie così coinvolgenti.
Nonostante questo solido legame, durante gli anni di liceo, la mia chitarra rimase sotto al letto ad impolverarsi.
Non era un addio.
Mi aspettava lì in silenzio, senza fretta, nell’attesa che mi decidessi a riabbracciarla.
E così fu.
Un giorno all’improvviso i miei cominciarono ad urlare.
Un vortice di litigi familiari portò la mia famiglia a frantumarsi come un pregiato piatto di Capodimonte.
In quel trambusto, la mia chitarra era pronta a risorgere a nuova vita.
Iniziai un corso settimanale.
Mi esercitavo tutti i giorni a casa.
Questo mi faceva stare bene e mi distoglieva dalla situazione difficile che vivevo in famiglia.
La musica mi ha aiutato davvero tanto.
Quando ero in quella stanzetta con la chitarra in mano, avevo il pensiero rivolto esclusivamente alle note che dovevo suonare.
E questo mi rendeva felice.
Una barriera insonorizzata che soffocava i dispiaceri circostanti.
Ora per non dimenticare l’importanza della mia chitarra, l’ho tatuata qui sull’avambraccio”.

Giovanni – Suona Ancora

Francesca – Amigdala

“Ero stufa di chiedermi cosa si potesse provare a vincere.
Non me ne facevo niente delle briciole, volevo il massimo, ma purtroppo il massimo non è a disposizione.
Tra me e la vittoria c’è un precipizio coperto di piante ed arbusti che non mi consente di capire quanto è profondo il burrone.
Questa è la paura: la non conoscenza di quello che c’è sotto ai piedi.
Posso cadere di sotto o camminare senza problemi per attraversare le sterpaglie e gli arbusti che ricoprono quello che potrebbe essere un precipizio.
La cosa bella è che lo saprò solo una volta che ho fatto il primo passo.
Se mi faccio immobilizzare dalla paura resto aldiquà della vita, ferma, inerme e con l’eterno dubbio che dall’altro lato ci sia qualcosa di buono.
Il dubbio e la paura sono amici stretti, compagni di giochi.
E pensare che studio neuroscienze e conosco in dettaglio quella parte del cervello, l’amigdala, che gestisce le emozioni ed in particolar modo la paura. Puoi conoscere tutti i funzionamenti degli impulsi neurologici, ma quando hai paura non c’è nulla da fare.
La senti arrivare come una mano invisibile che ti accarezza pian piano dalla nuca. Non c’è soluzione.
O forse si: l’amigdalectomia, l’esportazione dell’amigdala.
In questo modo non si sente più paura, non si sente più alcuna emozione, non si sente più niente”.

Francesca – Amigdala

Giovanni – No Audio

“Nessuna bocca è abbastanza grande per pronunciare le cose importanti .Meglio esprimersi con gli altri sensi.
Meglio togliere l’audio. Sento. Non ascolto.
Elimino l’audio dal mondo che mi circonda per coglierne l’effettiva sostanza.
Lo guardo con i suoi colori senza filtri, senza quelle parole ingombranti che ne deviano la percezione. Come Kenny McCormik, uno dei quattro personaggi di South Park, non sento il bisogno di comunicare attraverso il suono delle parole.
Sono l’autore del progetto artistico “no audio” che nasce come idea concettuale dall’identificazione performativa del tatuaggio, su come registrare sulla pelle un simbolo appartenente alla simbologia comune e di uso commerciale.
Ho utilizzato questo simbolo, l’ho decontestualizzato dal proprio accesso e l’ho tatuato sul collo, posizionandolo sul lato destro per specificare visivamente che dall’orecchio destro (IN) si registrano e si percepiscono suoni del linguaggio parlato che vengono registrati dall’emisfero sinistro (OUT).
Un omaggio visivo al no- audio, al silenzioso modo che attraversa il mondo del suono e quello dei sordi in modo da evidenziare un minimo comune denominatore da portare sempre con sé. Sentirsi un’artista equilibrista situazionista basista mai in lista senz’audio. Io e la mia teoria.
La Loria Teoria.”

Giovanni – No Audio

Danilo – Effetto Domino

“Sono questo.
Una tessera spaesata nel gioco del domino.
Troppo lontani gli uni dagli altri ed ecco che il processo si arresta.
Pezzetti di una reazione a catena. Parte dello stesso domino.
Come nei grandi mutamenti nella vita quotidiana che producono una reazione sulle persone che ci circondano,
se la vicinanza diviene soffocante basta spostare le tessere od eliminarle.
Tolto il dente, tolto il dolore.
Ed ecco che le persone si allontano per sempre.
Quelle che non puoi mai allontanare sono le tue radici. Tua madre. Tuo padre. Le tue sorelle.
Come un bimbo che si scambia le figurine con il suo amichetto di banco, io ho scambiato un tattoo con mia sorella.
Ho un cupcake tatuato sull’avambraccio con una crema fumante azzurro cielo.
Lei in cambio si è tatuata la mia grande passione: la boxe.
Siamo pezzetti di domino che ci sosteniamo a vicenda.
Neanche la gravità ci butta giù, figuriamoci i momenti tristi della vita”.

Danilo – Effetto Domino

Alessandra – Legittima Stranezza

“Se osservo i miei tattoo penso ai momenti di sofferenza che ho vissuto nel corso della mia vita.

Questi tatuaggi sono nervi scoperti del mio passato dai colori più diversi.

Sono pezzetti intimi che parlano al posto mio, a causa della mia poca dimestichezza con le parole. La malattia della persona più importante che ho, mi ha profondamente scossa.

Per lungo tempo camminavo con una macchia nera sul cuore che non andava via. Dovevo ricoprirla di colore. E così feci.

Mi incisi sulla pelle la sofferenza allo stato puro dell’artista messicana Frida Kahlo in due momenti diversi: prima e dopo il momento di dolore.

Questo tattoo mi ricorda che nonostante tutte le insidie e le sofferenze subite, in fin dei conti, i periodi brutti sono volati via. A volte, nuda, mi osservo allo specchio perdendomi tra le sfumature dei miei tattoo e penso.

Molte volte nel dolore si trovano i piaceri più profondi, le verità più complesse, le felicità più vere. Tanto assurdo e fugace è il nostro passaggio per questo mondo, che l’unica cosa che mi rasserena è la consapevolezza di essere stata autentica, di essere la persona più somigliante a me stessa che avrei potuto immaginare.

Vestita da un abito su misura di legittima stranezza”.

Alessandra – Legittima Stranezza

Marco – Porte del cuore

“Mia figlia rappresenta ciò che di più importante esista nella mia vita.
La vedo crescere ogni giorno.
Sembrava ieri quando gattonava in salotto, pronunciando a fatica le sue prime parole.
Mi piacerebbe non rappresentare per lei solo il classico papà “noioso”, trattato con distacco dalla propria figlia nel rispetto della tipica gerarchia che caratterizza questo tipo di rapporto.
Forse sarà anche in qualche modo inevitabile che ciò in parte accada – anche per gli errori da cui non sono certo immune – ma spero che non sarà solo questo.
Vorrei semplicemente che lei sappia che mi troverà sempre al suo fianco quando lo vorrà.
Vorrei accompagnare mia figlia in questo strano, fantastico e complesso viaggio che è la vita, portandola in giro sulle spalle ed aprirle le porte del mondo dal quale sgorgheranno sogni color arcobaleno e dove, inesorabilmente, si dovrà confrontare con le proprie paure, i propri limiti, con il bianco e nero delle delusioni.
Mi addentro con lei in questo labirinto dove potrà incontrare tante persone , ognuna portatrice di un colore; diverse per status sociale, idee e modo di approcciare al mondo.
Resterò prima al suo fianco, poi dietro, osservandola da lontano mentre con le sue piccole-grandi esperienze affronterà il mondo da sola.
Magari la guarderò mentre stringe la mano di un altro uomo – o di una donna, chissà – compagno/a di vita e di viaggio, portando sulle spalle e nel cuore il bagaglio costruito anche insieme a quel suo strano papà tatuato.
Un piccolo bagaglio d’amore costruito insieme a suo padre, che la aiuterà a tenersi in piedi quando la vita cercherà di metterla al tappeto”.

Marco – Porte del cuore

Lucyana – Je m’en Fous

  • Je m’en fous. Alla lettera non mi importa o io me ne frego.
    Poche parole per riassumere una storia andata male.
    Una storia durata quattro lunghi ed interminabili anni.
    Sono stata delusa, umiliata, tradita e perfino picchiata da quello che pensavo essere l’uomo della mia vita.
    Nelle vite degli uomini prepotenti non c’è spazio per un’altra donna.
    L’ho capito tardi a mie spese.
    Avevo consegnato nelle sue mani egoiste il mio essere per chissà quale interesse superiore.
    Ne sono uscita vittoriosa e perdente allo stesso tempo come quei giorni in cui in cielo c’è il sole alto ma piove a catenelle.
    Mi trascinavo ogni giorno nel percorso di vita insieme con la sola forza delle braccia e con le gambe della mia autostima amputate.
    Questo periodo tetro, oltre le macchie di inchiostro che mi porto sulla pelle che mi ricordano cosa non devo volere dalla vita, mi ha causato una continua mancanza di fiducia nelle persone che mi circondano, anche in quelle che mi vogliono bene, minando di fatto alla radice dei rapporti con le persone.
    Quando dimentico quello che ho passato, guardo il mio avambraccio e ripeto a me stessa je m’en fous. 
    Io me ne frego.
    Io me ne fotto”.
Lucyana – Je m’en Fous

Pasquale – Libertà

“La sento la potenza dell’arte.
Questo tattoo rappresenta l’opera dello street artist Banksy apparso sui muri inglesi verso la fine del 2002.
L’opera raffigura una bambina a cui sfugge un palloncino a forma di cuore con in basso una scritta che recita “c’è sempre speranza”.
La prima volta che vidi quest’opera, la sentii subito mia.
Sapevo che doveva essere parte di me.
Percepivo la forza dirompente di un dipinto lasciato per strada su di un muro cadente.
Voleva dirmi qualcosa. Ora vedo volare via quel palloncino all’elio su per il cielo.
Chissà dove è finito. Da piccolo me lo facevo comprare proprio per questo motivo.
Non volevo che mi venisse legato al polso, lo stringevo tra le mani per un po’ e poi, quando era giunto il momento lo lasciavo libero.
Fluttuava tra le nuvole verso chissà quale meta.
Proprio come dovrebbero essere le nostre vite e quelle delle persone che ci sono vicine: quando la presa è troppo stretta forse è meglio lasciare che il vento le porti via. Invece si resta legati con l’auspicio che qualcosa possa cambiare, perché nonostante tutto…c’è sempre speranza”.

Pasquale – Libertà

Fabiana – 15.20

“Ridevo a piedi scalzi, con indosso una tutina a strisce che aveva una toppa di un elefantino,
mentre i tuoi occhi sembrano avvolgermi in un vortice di affetto.
Mamma, io rido mentre resto immersa in questo composto strano che è l’amore.
Rido come riflesso inconsapevole, di una gioia infinita.
Nel buio dei giorni a venire, mi faccio luce con la tua stella, la più luminosa sulla mia pelle,
quella che insieme al resto della costellazione familiare mi orienta in questo profondo disordine quotidiano.
Ogni giorno alle 15.20 mi capita di guardare l’orologio e sentirmi per un attimo trafitta nuovamente da una lama, ugualmente fredda come quell’ uggioso pomeriggio di qualche anno fa.
Nel momento in cui il materiale si è trasformato in immateriale, in ogni dove, mi tocco la testa ricordandomi che in fin dei conti continui ad orientare le mie azioni come quando da piccola mi accarezzavi il capo per farmi mangiare l’ultimo boccone.
Oggi questi bocconi li cucino e li preparo tra gli afosi fornelli di una cucina,
ricordandomi sempre che certi vuoti non li posso più riempire,
al massimo posso far finta di non vederli”.

Fabiana – 15.20